Oltre che di poesia, di che si occupa nella vita Matteo Fantuzzi ?
- Io non so se dici di pannolini, fare la spesa o quelle robe lì della vita di tutti i giorni (anche quelle van fatte !). Probabilmente la cosa più curiosa che mi riguarda è il fatto che non ho compiuto studi né classici né umanistici, dico dal punto di vista scolastico (perché bene o male nel corso degli anni tutto quello che c'era da leggere sia dal punto di vista teorico che dal punto di vista delle opere ho cercato di farlo): sono laureato in Chimica Farmaceutica e come mestiere da stipendio fisso ho sempre avuto esperienze in quel campo, e in fondo in qualche poesia si vede che il farmaco è una materia che conosco e con cui spesso ho avuto a che fare, non da paziente ma dall'altra parte. Quando scelsi l'Università nonostante i primi riconoscimenti volli tenermi un mestiere che tenesse in forma anche quell'altro emisfero del cervello, in qualche modo non mi costringesse 24h/24 sulla poesia ma mi portasse anche altrove, nel reale in fondo.
Kobarid, il titolo del tuo libro, è il nome slavo di Caporetto. Dunque una generazione della disfatta. Però Caporetto segnò una svolta, l'inizio del cambiamento. E' questo il tuo auspicio ? ci sono segnali che lo fanno presagire ?
- Non esattamente, Kobarid non racconta tanto la disfatta ma come si è arrivati alla disfatta. La mia idea di fondo è che le cose non arrivino mai per caso, l'idea che la crisi sia semplicemente accaduta, o piovuta dal cielo a mio avviso assolutamente non regge. I segnali forti di quella disfatta erano evidenti anche nel momento in cui le economie viaggiavano ancora con incrementi di guadagni annui in doppia cifra, anche in quel momento si poteva leggere quello che sarebbe stato il futuro. Kobarid è stato scritto materialmente tra il 1999 e il 2007, quindi ben lontani dal quadro attuale, l'esplosione delle problematiche era ancora lontana: ma stiamo attenti a considerarla solo una questione economica, il precariato va inteso sotto ogni punto di vista, sociale, affettivo... è un discorso civile prima di tutto, questione se possibile ancora più delicata. Per questo l'uomo si deve “riumanizzare”, deve comportarsi come in grado di fare, come si è comportato ad esempio a Bologna il 2 Agosto 1980 il giorno della strage alla stazione. Proprio con questa speranza e col recupero di quella vicenda che oggi rischiamo di dimenticare finisce Kobarid e comincia il lavoro quotidiano che sto compiendo. L'uomo deve riacquistare tutta la civiltà che è in lui e che spesso emerge solo nei momenti più difficili. Ma è questa grande umanità che oggi va raccontata, il senso civile.
Per la generazione degli anni 60 la poesia svolse un importante ruolo di propulsione e di innovazione. Penso a Ginsberg negli Stati Uniti, a Neruda in America Latina, e in Italia al Gruppo 63, al pullulare delle riviste, alle letture pubbliche. Pensi che la poesia possa contribuire oggi a ricreare quell'atmosfera ?
- Non credo sia possibile generalizzare, nel senso il ruolo del Gruppo '63 è stato importante dal punto di vista teorico, ma solo pochi autori si sono salvati da una forte tendenza all'accaparramento delle poltrone (tipico del nostro paese, molto meno ad esempio della Beat Generation o della poesia del Centro e Sudamerica): d'altronde di quell'esperienza solo alcuni sono rimasti punti fermi per i contemporanei, tra tutti certamente Elio Pagliarani che non a caso non era visto di buon occhio dagli altri del Gruppo. Dobbiamo poi considerare che spesso determinati di questi autori hanno condizionato la poesia con il loro operato pratico volto ad una ricerca ombelicale, egocentrica che unita a una scarsa qualità (e comprensione) del testo hanno da un lato allontanato le persone dalla Poesia e dall'altra parte hanno creato quella reazione del “allora se sono poeti loro tutti siamo poeti, basta andare a capo ogni tanto” che abbiamo vissuto negli ultimi 30 anni. Diverso è un discorso virtuoso e certamente più contemporaneo nel quale le letture, i libri, le riviste servono per raccontare un percorso che non è più destinato a una stretta riserva quanto piuttosto un'enorme condivisione destinata alla maggiore captazione possibile.
Utilizzi un linguaggio finalizzato alla comunicazione immediata. Casadei lo definisce: una lingua media, stilisticamente abbassata sino quasi allo spot pubblicitario.... Si tratta di una strategia ragionata ? Le atmosfere delle tue poesie, certe ambientazioni, gli sfondi urbani, ricordano i romanzi di Murakami.
- A un certo punto credo che il mio modo di costruire i testi dipenda naturalmente dal loro contenuto. È chiaro che se guardiamo i pesi la “sostanza” agisce in maniera molto più pesante rispetto alla “forma” o per lo meno è quest'ultima che si deve adattare al significato intrinseco senza comunque mai dimenticare che stiamo parlando di poesia e quindi anche i passaggi più prosastici devono sempre tenere conto di strutture precise, di suoni cadenzati, di cesure e quant'altro. In fondo sulle “virgole” di Kobarid sono stato oltre sei mesi, quindi ogni suono è stato per così dire deciso in scienza e coscienza, e ancora adesso ho gestazioni molto lunghe nonostante per assurdo parli dell'immediato e del contemporaneo. L'idea di Murakami è buona perché anche lui fonda il suo lavoro su due culture a cui guardo per motivi diversi, quella americana (soprattutto Steinbeck e più recentemente Brautigan) e quella giapponese (anche i manga con la loro componente taoista dell'accrescimento dato dalle esperienze di vita), per il resto però la componente puramente narrativa è nettamente inferiore rispetto alla poesia che oggi per me rimane decisamente la grande forma di analisi diretta, anche rispetto alla poesia internazionale che spesso in Italia si fatica a considerare (il nostro splendido e altrettanto pesante Novecento decisamente si fa sentire...).
Che cosa pensi delle affermazioni di Beradinelli secondo cui i professori della poesia spingerebbero nella direzione di una poesia volutamente oscura per mascherare un vuoto di idee, una mancanza di passione ?
- Che ha ragione. È più comodo ripetere stancamente percorsi triti e ritriti, e soprattutto in questa maniera si rimpiangono gli “originali”. Ci vuole innovazione e ricerca anche in una tradizione forte come la nostra. Se tanti laureandi in lettere invece che passare anni su qualche autore minore del Seicento si sbattessero su persone vive e vegete, se come accadeva solo qualche decennio fa all'Università si studiassero contemporanei che potessero parlare il linguaggio e le pulsioni dei loro fruitori si farebbe un grande lavoro per la percezione della poesia. E la cosa altrove, per altre materie è qualcosa di banale a cui altrettanto anche noi dobbiamo tendere. Certo la capacità di fallimento è ampia e solo pochi di quei professori si spingono a sporcarsi nelle riviste militante. Dovranno quindi essere le nuove generazioni a cambiare le cose, perché scomparsi i grandi dello scorso secolo queste persone dovranno (e in fretta) prendere in mano le cose.
Recentemente hai curato l'antologia La generazione entrante. Dove guarda la poesia dei giovanissimi ?
- Come ho scritto anche nell'introduzione al libro, uscito per Ladolfi da pochi giorni “nella poesia dei nati negli anni Ottanta viene a mancare l’idea di “comunità”, di intento di gruppo che aveva caratterizzato i cosiddetti “Settanta” o, ancora meglio, un buon gruppo di autori, molto agguerriti, anagraficamente compresi tra il 1968 e il 1977. Ora ci troviamo al contrario di fronte a un’identità sfilacciata e solitaria, debole e poco battagliera, una potenziale nuova “generazione in ombra”, non classificabile in una sola semplicistica categoria, ma in grado al contrario di creare con il proprio lavoro come già è accaduto per i nati negli Anni Sessanta opere importanti. E proprio dalle opere dobbiamo ripartire se vogliamo risuscitare lo stato della poesia italiana contemporanea, l’unico antidoto (e questi nuovi autori lo hanno ben capito) sono i testi. Solo la carta può risolvere le cose”. Questa nuova generazione è assolutamente conscia degli errori che hanno allontanato in passato le persone dalla poesia. Leggere questo lavoro significa in qualche modo andare oltre, capire che in maniera naturale questi autori lo stanno già facendo e si prenotano come colonne del nostro futuro letterario.