Intervista a Valdo Immovilli a cura di Paolo Polvani


Nel 1977 Valdo Immovilli ha pubblicato “Mi faranno santo”, con le edizioni Geiger, fondate a Torino da Adriano Spatola e suo fratello Maurizio, con la prefazione di Giulia Niccolai.
Nel romanzo “Il cacciatore di mosche” è raccontato come avvenne l’incontro con Spatola:
“ Mi ricordo di quando incontrai Giulio la prima volta. Avevamo letto un articolo su una rivista, dove si parlava di lui e si diceva che abitava da quelle parti, così, assieme a Dante che era allora il mio migliore amico, andammo a cercarlo.
Giulio, oltre a essere un riconosciuto e apprezzato poeta, pubblicava una rivista e una piccola collana di libri che curava con amorevole attenzione.Dante e io, ovviamente, portammo con noi  le nostre poesie; dopo averle esaminate, Giulio non disse nulla, un nulla che nell’ansia dell’attesa risuonò nella nostra mente come un tutto; tutto il peggio che ci potesse dire. Accortosi poi del nostro scoraggiamento cercò di rincuorarci ma Dante non si rincuorò affatto e da quel giorno non lo vidi più. Io apprezzai la sincerità, fu così che Giulio divenne il mio maestro di poesia, ed io lo ricambiai  facendogli da autista e da maestro di musica, su e giù per le colline da un’osteria all’altra, cantando a squarciagola in perfetta disarmonia. Nelle lunghe serate invernali tutto era poesia: il cane, il gatto, il fuoco del camino, la neve sugli alberi secchi. “
(Per inciso: Il cacciatore di mosche è, anche, il titolo di un’opera di Spatola pubblicata nell’’80 in collaborazione con Giuliano Dellacasa, e nell’intervista che segue è spiegata l’origine del nome).
In seguito Valdo Immovilli ha pubblicato “Parigi e le altre”, con le edizioni del laboratorio, di Modena,  e infine il romanzo Il cacciatore di mosche, con lo pseudonimo di Aldo Komenov.
Alla morte di Spatola, avvenuta nel 1988, ha scritto per lui la poesia Il fuochista, pubblicata nel ’93 con le edizioni del Laboratorio di Modena nell’antologia curata da Carlo Alberto Sitta, I nomi del fuoco.


Il fuochista


Andata e ritorno, i passi nella neve
la distanza tra la casa e il fiume.
Non c’è più il camino acceso.
L’odore del fumo, il gatto che fa le fusa.
Non avrei mai scritto per te una poesia, prima:
non è mai stato facile sentire la tua assenza.

Andata e ritorno i passi nella neve
la distanza tra la casa e il fiume.
Mi mancano le tue zampate di orso fuochista
i tuoi amabili rigurgiti mattinieri
e i tuoi latrati notturni, quando fingevi d’essere ubriaco.

Ne hai scolate di bottiglie per ingannarci
e non posso credere che hai scolato l’ultima.

La morte è un fatto quotidiano.
La vita rimane l’eterno dialogo tra noi
e l’altro, colui che tutto sa ma poco concede.






1) Il tuo approccio alla poesia è avvenuto così come raccontato nella pagina iniziale de Il cacciatore di mosche?
Diciamo di no e anche di sì. Avevo già scritto molti quaderni, quaderni a righe di quelli rilegati con le molle, (dovrei ancora averli da qualche parte); diciamo tuttavia che dall’incontro con Spatola, da quel momento in poi, molte cose sono cambiate. E quell’incontro è avvenuto, più o meno, come descritto nel romanzo “Il cacciatore di mosche”, anche se Giulio ha ben poco a che vedere con Adriano.
Adriano diede un’ occhiata, assai veloce, alle poesie che io e Dante gli avevamo portato e poi ci disse che potevamo buttarle nel camino. Tempo dopo mi arrivò un bigliettino dove mi diceva che avrebbe pubblicato due miei testi sul numero di Tam Tam in uscita.
Ed io ero contento di sapere che non li aveva bruciati.

Da lì iniziai a frequentarlo, ma in tutto il tempo che ci siamo frequentati, non mi ricordo di avere mai fatto con Adriano dei discorsi circa la poesia.

2) Come sei entrato nella redazione di Tam Tam?
Anche questo corrisponde al romanzo, ho iniziano a frequentare il Mulino regolarmente, mi fermavo a volte per qualche giorno, aiutavo in tipografia. Ero senz’altro tra i più giovani, altri andavano e venivano. Come ho detto, Adriano non è Giulio, non era un personaggio “facile”. Aggiungo anche che Giulia non è Livia e Selina non è mai stata da quelle parti. Lo dico perché qualcuno che conosceva quell’ambiente, si aspettava di leggere nel romanzo una specie di cronaca di quegli eventi. Non era mia intenzione. Io volevo scrivere un romanzo e raccontare cose, che poco o nulla hanno a che fare con quella realtà.
3) Com'era l'atmosfera a Mulino di Bazzano?
Se parliamo di atmosfera allora sì, allora qualcosa corrisponde al romanzo, e forse è da lì, da quella atmosfera che è nata l’ispirazione, o almeno la voglia di scrivere, di raccontare. Naturalmente è la “mia” atmosfera, e per capire bisognerebbe leggere il capitolo “osteria” o “la tipografia” o “ dal pastore, o altro.
L’atmosfera del romanzo è tutta un riverbero dell’ atmosfera che io ho vissuto in quei giorni. Ripeto, che io ho vissuto, e per la quale non posso negare una notevole nostalgia. Ma credo sia difficile trovare qualcuno che non ha nostalgia della sua giovinezza.
4) Quali erano i poeti più assidui ? come si svolgevano le riunioni?
Io mi ricordo in particolare di Sitta, Marie Luise Lantengre, Bisinger, Betrametti e molti altri. A quei tempi, Mulino di Bazzano era veramente un punto di riferimento a livello internazionale per la poesia, ma basta vedere un numero di Tam Tam per rendersene conto.
5) Ricordi qualche episodio particolare?
Tantissimi. E mi spiace un po’ di non averli utilizzati per il romanzo. Ma era impossibile, perché, come detto,  Adriano non è Giulio. E il mio intendo era parlare di Giulio. Tuttavia i ricordi sono davvero tanti. Adriano era imprevedibile, amava tutto ciò che poteva rompere la monotonia del quotidiano. Quando non era ubriaco era una persona deliziosa, questo succedeva soltanto al mattino presto, appena sveglio, dunque era necessario abitare lì per sorprenderlo in quella condizione. Comunque per lui era indispensabile sempre e comunque essere al centro dell’attenzione, cosa gli veniva sempre in un modo o in un altro, abbastanza naturale.
“ Una sera incontrai Adriano e altri, in una osteria, a Reggio Emilia. Era molto che non lo vedevo. Io ero in compagnia di un’amica e mi fermai con loro solo il tempo di un saluto. Il giorno dopo leggo sul giornale “ Il poeta Adriano Spatola arrestato“. Leggo l’articolo e mi scappa da ridere: aveva preso a parolacce un vigile urbano. I particolari non me li ricordo, mi ricordo però che andai a trovarlo qualche giorno dopo. Mi raccontò la storia, ed era felice come una Pasqua, l’esperienza di una notte ( o forse due o tre ) in carcere gli mancava, e l’aveva esaltato.
6) Com'è nata la poesia sull'orso fuochista ?
Ho scritto quella poesia il giorno in cui ho saputo della morte di Adriano. Devo tuttavia aggiungere una cosa: in quella poesia ci sono dei riferimenti molto precisi ad un testo di Gerald Bisinger, in un certo senso è un omaggio a Bisinger che per me è stato ed è tutt’ora un punto di riferimento principale. Con Bisinger ci siamo incontrati al Mulino di sfuggita un paio di volte e non c’è mai stato un dialogo preciso diretto. Tuttavia ci sono, e lui l’ha visto prima di me, molto punti in comune tra il nostro modo di scrivere e intendere la poesia. Bisinger, ha tradotto quasi tutte le mie poesie, e le ha pubblicate ovunque gli capitasse e senza dirmi nulla, ed è stata per me, giovane “poeta” una sorpresa notevole vedermi pubblicato in antologie da lui curate assieme ai più importanti poeti del tempo, a livello internazionale. Una volta mi sono arrivati 500 Marchi dalla Germania, da una radio nazionale, dove erano state lette alcune mie poesie.
7) Cosa ti è rimasto di quei fermenti?
Molta nostalgia, mi è capitato di passare di là, ultimamente. Non posso negare che ho sentito un tuffo al cuore nel vedere le finestre chiuse. Mi aspettavo di intravedere Giulia dietro la finestra, mi aspettavo che il cane mi corresse incontro, e il sorriso indefinibile di Adriano in canottiera, già mezzo ubriaco a metà mattina.
8) Com'è nata l'idea del Cacciatore di mosche?
Tutto è nato dal titolo. Una sera, eravamo intenti alla solita battaglia con le mosche e mi è venuta in mente quella frase. Adriano disse che avrebbe scritto una poesia intitolata “il cacciatore di mosche” con sotto scritto “ titolo rubato”.  Io scrissi quasi subito un racconto con quel titolo, un breve racconto che corrisponde più o meno a quello che poi divenne il prologo del romanzo. Già allora scrissi anche il primo capitolo. Tutto il resto è recente.

9) Perché hai utilizzato uno pseudonimo per il Cacciatore di mosche?
Non c’è stata una premeditazione, è venuto da sé. Il romanzo è narrato da Aldo in prima persona, all’inizio io e Aldo eravamo la stessa cosa, poi lui è diventato Komenov ed ha preso un po’ le distanze da me, si è messo a pensare e a scrivere in proprio, per cui mi è sembrano onesto che fosse lui a firmare il romanzo.

10) Dove va la poesia ?
Mah! J.
La poesia va dove tira il vento. Posso dirti dove soffio io.
Per me tutto il significato della poesia, è racchiuso in pochi versi:

Charles Baudelaire
“ Signore, dammi la forza e il coraggio di contemplare
il mio cuore e la mia anima senza disgusto”

Quando ho letto questi versi la prima volta sono rimasto colpito profondamente. Benché fossi giovanissimo c’era in me una urgenza: l’urgenza di guardarmi dentro, di fare un po’ di luce in quella immensa confusione. Tuttavia mi ricordo che non capivo il termine “disgusto” avevo più o meno sedici anni e in me, a quella età,  di disgustoso non c’era obbiettivamente nulla. Tuttavia compresi che la poesia poteva essere, era, lo strumento che cercavo, di cui avevo bisogno per la mia ricerca. E se avessi mai avuto bisogno di una conferma avrei potuto trovarla in questi splendidi e inequivocabili versi di Ungaretti.

“Quando trovo
in questo mio silenzio
una parola
scavata è nella mia vita
come un abisso”

Non è un caso se questo versi vengono ripresi e approfonditi in un discorso sulla poesia tra Aldo e Giulio, nel romanzo “Il cacciatore di mosche” .

Per me la poesia è parte integrande di un più ampio percorso che tocca ogni aspetto della vita ed ha come scopo la ricerca interiore e la conoscenza di se stessi. Lo scopo della poesia non è, tuttavia,  trovare il nome a qualcosa che non ha nome, e per tanto non può essere conosciuto e tanto meno definito. Lo scopo della poesia è amare e fare amare quella “cosa” infinita, e descriverne l’odore, il sapore, lasciare una traccia, delle tracce, affinché si sappia che quella “cosa” esiste, confermarne l’esistenza.

11) E l'editoria legata alla poesia?
La poesia non ha un mercato, ed è una fortuna, senza mercato è molto più libera. Le moderne tecnologie creano già un mutamento colossale. Credo debba esserci un legame diretto tra autori e lettori.
Ognuno mette in rete i suoi testi e chi è interessato se li prende.
Purtroppo c’è una invasione tale di poeti e poesie che il rischio è quello della dispersione.
Vedremo come andrà a finire.

Intervista a Marco Righetti




Abbiamo posto alcune domande al poeta e scrittore Marco Righetti, autore del romanzo "Sole nero" (Leone Editore).




1) Com'è nata l'idea di Sole nero?

Dalla lettura, fra gli altri, del libro di Leonardo Maugeri Con tutta l’energia possibile, dalle notizie sui nuovi progetti di centrali solari nel Maghreb, dall’interesse per l’astronomia, per l’Africa come territorio in cui l’anima è costretta a scoprirsi, a liberarsi. La tematica lato sensu ambientale mi ha sempre coinvolto, così come l’idea di far agire nel romanzo forze oggi in campo nel continente africano, cioè la vecchia mafia del petrolio e gli interessi delle nuove multinazionali. C’è poi il fascino delle radici: nel romanzo ci sono passaggi in cui i protagonisti vengono come immersi nel richiamo alle origini e qui prendo sottomano poesia, ricordi e concrete esperienze personali vissute in Sicilia e Sardegna. Nessun libro è figlio di una sola idea. Lo stesso vale per questo titolo che suscita, è il caso di dire, costellazioni di richiami. C’è il simbolo esoterico del sole nero che ha una storia molto risalente, mentre l’anno scorso è uscito Un buon posto per morire di Avoledo e Boosta, dove il sole nero è l’asteroide che minaccia la terra. Il sole può essere nero in senso drammatico, come accade nell’intenso Il sole nero di Rocco Familiari, e nel Sole nero di Gilles Leroy. Nel mio caso il titolo può alludere alle macchie solari che ‘scuriscono’ il sole durante la loro breve parabola e danno il la alla stessa vicenda, ma c’è comunque un voluto richiamo a quello che questo sintagma evoca nella mente del lettore (il che poi accade per ogni titolo).
Tornando all’idea del libro, il coacervo di stimoli descritto è a un certo punto esploso, ci sono libri che nascono da un’esplosione. Diciamo che ho subìto una fase di fascinazione a cui poi ha fatto seguito la scrittura, l’elaborazione di un teorema affidato alla penna, e la proposta di una mia versione dei fatti. Mi ha sempre colpito l’affermazione di Saramago, versione estremizzata della sospensione dell’incredulità coniata da Coleridge (e minata poi da Nabokov): ‘organizzo una situazione impossibile e ho bisogno che il lettore accetti la mia proposta, Se lo fa vi assicuro che tutto diventa rigorosamente logico’. In fondo con Saramago siamo al punto massimo di arrivo dell’invenzione, cioè l’impossibilità (e il genio di uno scrittore). Ma allora tutto il resto, cioè la creazione di situazioni possibili, diventa molto meno complicato e quindi è realizzabile. Una volta ri-convintomi di questo (una sorta di necessaria entrata nella scrittura) non mi è restato che stendere il plot, tenendo conto di variabili concrete, scientifiche e di situazioni in fieri. E tenendo fermo che il genere doveva restare noir. L’idea di collocare l’azione nel 2022 serve poi a prevenire l’eventuale incredulità del lettore prospettandogli una situazione di cui nessuno può avere le chiavi. Vorrei fare un’osservazione socioletteraria. Oggi il lettore ha una mente molto più elastica di un tempo. Smaliziati come siamo nell’accettazione di situazioni e ambienti di fantasia, nella commistione di elementi naturali e virtuali (e qui giocano un ruolo efficace film, tecniche di motion capture, ambienti videoludici, spot e video pubblicitari, a parte quelli shock tipo lo spot della compagnia britannica Phones 4u un anno fa) mai come oggi nella scrittura di un testo conta l’interazione fra fantasia e realtà, la capacità insomma di ricreare nostre vicende spostandole in ambiente governato (da chi scrive). E sotto questo aspetto il thriller si presta perfettamente a questo tipo di regia. La scrittura è l’unico ambiente governabile, gli altri, quelli del nostro quotidiano, ci sfuggono proprio quando pensiamo di averli compresi. Con Durrenmatt, per esempio, la scrittura è così governata da creare una sorta di ambiente parallelo da cui lo scrittore guarda i fatti che analizza.



2) Il romanzo affronta tematiche legate alla scienza e alla tecnologia. Eri già in possesso di competenze specifiche?

Finito il classico mi iscrissi a Fisica, travolto da sana passione per la materia, dietro consiglio dello stesso professore con cui sostenni la maturità. Ma dopo pochi mesi cambiai, non avendo solide basi matematiche; anche sotto la spinta di altri fattori pratici mi segnai a Giurisprudenza, devo dire felicemente. Ma come ogni amore infranto mi è rimasta però la passione per la materia. Si è attratti da ciò che non si conosce. Se avessi fatto l’insegnante di lettere magari (a differenza di Lodoli e D’Avenia, per esempio) avrei usato la penna solo per correggere i compiti degli studenti.



3) Tu pensi che gli scenari da te prefigurati si evolveranno nella direzione suggerita dal romanzo?


E’ una scommessa che non vorrei sottoscrivere. Nel libro la rete di centrali solari termodinamiche si chiama Lightstorm (Tempesta di luce) mentre nella realtà il progetto per il quale sono attualmente partiti gli appalti e che dovrebbe vedere la sua prima fase di produzione nel 2014 si chiama Desertec, e mira a tappezzare il Maghreb, appunto, con una rete di centrali solari che dovrebbe poi fornire energia all’area EUMENA.





4) Prima di essere romanziere sei poeta. Trovi che i due campi confliggano? quali grosse differenze hai riscontrato?

Ci sono, e notevoli. In poesia scavo in verticale, tiro fuori la dimensione altra, forse inavvicinabile altrimenti. Quando ho scritto Ombelicale, parole alla mia sempremadre (sezione centrale del mio libro di poesia Il seguito mancante) ho messo in atto una sonda che ha fatto schizzare frammenti di un discorso che tentava un ricongiungimento, un abbraccio nel dolore, la pacificazione di un tempo che mi era sfuggito. In prosa c’è lo spazio che si allarga e si popola, e non puoi star lì a raccontare di te, devi stargli dietro, sorreggerlo, far sì che tutto regga, che le forze conducano da una parte. In prosa ho bisogno di un motore che funzioni, di una strada su cui correre, di un punto d’arrivo, di un luogo in cui incontrare altre voci, di una storia che diventi più vasta, che abbia dalla sua un’idea forte, una potenzialità che deve sostenere poi il successivo svolgersi degli eventi. Ciò non toglie che la prosa possa a sua volta diventare poetica, lo dice per esempio il Peter Camenzind di Hesse quando riferisce che il suo desiderio era raccontare poeticamente la muta natura. C’è infatti la poesia che allarga il seminato, annullando confini e mettendovi quelli di certa emozione, di certa prossimità alle cose, ai fatti. Ma dopo l’excursus poetico il discorso deve tornare a radicarsi in uno sviluppo, direi ‘in un’opera di influenza sul reale’, in una narrazione che lo rimetta in discussione o lo confermi o lo sottoponga a nuove direzioni, fecondando possibilmente nel lettore quel nuovo territorio che è poi l’humus di ogni libro. A misura che leggiamo la nostra competenza relazionale, la nostra capacità di com-prendere il mondo (in senso etimologico) dovrebbe crescere. Se leggo un libro aumento la geografia dell’anima (è quanto accade, per esempio, dopo aver letto La linea d’ombra), o del possibile (vedi i Sessanta racconti di Buzzati). Quando qualcuno ti porta una sua esperienza l’ideale sarebbe rispondere: ‘in quello che mi dici ci sono già stato, è già mio territorio’ = è diventato mio anche a seguito delle mie letture. Il bagaglio personale di conoscenze è sempre formato – fisicamente, direi – dalla variabile delle proprie letture, anzi del linguaggio. Non a caso Wittgenstein diceva che i limiti del linguaggio sono i limiti del nostro mondo. Lo stesso Moses E. Herzog (nell’omonimo romanzo di Bellow), grafomane forsennato, va a cercare la realtà attraverso il linguaggio. Meneghello addirittura ci dice che il dialetto è le cose che rappresenta, è la prima forma di ‘appercezione’ della realtà anteriore a ogni ragionamento. In una delle prime pagine del suo Le braci Sandor Marai descrive il personaggio della vecchia governante Nini e la osserva ‘muscolosa e tranquilla come se il suo corpo fosse a conoscenza di qualche segreto,come se nascondesse qualcosa nelle ossa, nel sangue, nella carne, il mistero del tempo e della vita (...) un segreto che le parole non sono in grado di sostenere’ ed ecco che Marai ci ha allargato la geografia della parola ‘vecchia’.



5) Stai lavorando ad un romanzo a vocazione popolare, di impianto classico. Puoi fornircene alcune anticipazioni?

Al centro della vicenda c’è un bambino autistico, e c’è sua madre: ecco, l’omaggio sarebbe perfetto. Ma poi vedo che la sofferenza della situazione descritta mi prende la mano , m’interroga, mi mette in crisi. C’è un ovvio rapporto dialettico fra me e questo romanzo, perché c’è in ogni cosa che tocchiamo (scrivere un libro vuol dire proprio ‘toccarne’ la trama), che viviamo. Apro una parentesi: ho vissuto la forte esperienza di mia cugina, ragazza con problemi più gravi dell’autismo. Stare al suo fianco, le poche volte che stavo al suo fianco, era incontrare un mondo sommerso di cui tentare di avvicinare i codici, le luci oltre alle ombre, le gioie!, un andare sott’acqua per poi riemergere e trovare che, per fortuna, c’era ancora ossigeno e tanto. Ma soprattutto ce n’era anche per lei! Chi soffre resta in attesa, ti guarda e ti attende, ti chiama. E in quella chiamata, ne sono convintissimo, c’è molto della nostra vita quaggiù.
Tornando al romanzo la vicenda è più vasta, i confini anche lì si allargano e dovrebbero coinvolgere. Il senso di attesa che compare fin dalle prime pagine a un certo punto culmina in un evento fondante, che determina una svolta: da quel momento in poi c’è l’urgenza che porta al finale.



6) Che cosa rappresenta per te la scrittura?

Se il corpo, come diceva Sarte, è condizione necessaria per la mia esistenza e allo stesso tempo premessa per un superamento del dato contingente, la scrittura è il canale necessario con cui mi confronto con l’esistenza e allo stesso tempo la premessa per un approccio diverso alla realtà, una chiave per studiarla, possibilmente aprirla. Diciamo che con la scrittura prendo una strada, presuntuosamente e procedo, sapendo che il territorio dello scrivere è più ampio dell’etica. Scrivere vuol dire sempre avere a che fare con la dimensione etica, proprio nel suo valore originario di rapporto con norme di comportamento sociali. Con la scrittura si può infatti arrivare anche molto lontano, anche a descrivere per esempio più futuri possibili, come accade nel Giardino dei sentieri che si biforcano.
Tuttavia scrivere mi pone subito di fronte a un’ambivalenza ineliminabile: da un lato prendo quella che credo la strada giusta, ma in realtà il fatto stesso di scrivere implica che “colle mie mani istesse mi saprò far giustizia” (con le parole del Goldoni), cioè mi ritrovo io stesso a scegliere il dopo-oscurità, il dopo-annebbiamento, il dopo-innamoramento. Ma sono io che scelgo? Non l’ho mai capito. Praticamente la scrittura è iniziare un cerchio, e alla fine chi lo completa è sempre la mia mano. Mi domando allora: l’ha completato per fedeltà alla geometria o perché conosceva esattamente quello sviluppo rivelatosi poi circolare? E’ una domanda a cui non so rispondere.
La scrittura forse esiste per rendere più cosciente il grande mistero della vita, la sua non codificabilità. Ci si ritrova ancora una volta all’inizio del cammino, anche se con un po’ di coscienza in più. Sotto questo aspetto l’Herzog di Bellow potrebbe essere letto anche come una balenante metafora di tale coscienza, quando alla fine del romanzo il protagonista inizia ad accettarsi, dopo l’esperienza delle infinite lettere da lui scritte e mai spedite.

Vivo la scrittura come un attore che agisce nella scena interiore, diverso dall’io pensante. Non a caso ancora Borges diceva enfaticamente che nessuno sa bene quello che gli è dato di scrivere.



7) Nella vita di che altro si occupa Marco Righetti?

Di un lavoro amministrativo che mi consente di portare in famiglia un contributo concreto e fattivo, poiché litterae (e non solo ‘carmina’) non dant panem. Teoricamente il tempo occupato da lavoro, spostamenti per raggiungerlo (nel mio caso molto lunghi) e impegni familiari è tempo sottratto alla scrittura. In realtà quel segmento (prevalente) di giornata è ciò che dovrebbe dare un senso alla vita e avvalorare poi la scrittura come testimonianza, conferendole autenticità. Lavoro, metrò, bus e famiglia mi riguardano come zoon politikon facente parte di una comunità sociale, e come titolare delle qualifiche di ‘marito’, ‘padre’, sono il certificato di nascita con cui anche oggi dico ‘eccomi’ in una casa, in una società. Solamente dopo trovo spazio (spesso esiguo) per l’elaborazione letteraria.


Dodici domande a Caterina Davinio


Kenya (c) Caterina Davinio



1) Hai scelto un titolo, Il libro dell'oppio, ricco di suggestioni letterarie, mentre le poesie sembrano appartenere più alla vita vissuta che alla letteratura. Ti piace confondere le acque ?

Certo... a confondere arte e vita si dà sapore a entrambe e si vivono più emozioni nell'una e nell'altra, però si rischia di farsi male... Se non c'è vita sotto la pelle della poesia, la letteratura la rende cosa dotta e grigia. In certa misura le suggestioni letterarie fanno parte anche della vita, quando la letteratura è nella tua formazione, negli studi, nella storia personale. La poesia è linguaggio, e il linguaggio è chiave di lettura della vita; senza linguaggi non potremmo non solo raccontarla, la vita, ma neppure decodificarla, compiutamente viverla. Così linguaggio e vita si compenetrano e completano a vicenda continuamente.

2) La raccolta è rimasta nel cassetto per oltre vent'anni. Cosa ti ha fatto decidere che i tempi erano maturi per la pubblicazione?

Il libro dell'oppio è parte di una raccolta molto più grande, Fatti deprecabili, suddivisa in vari libri, che contiene oltre quattrocento testi dal 1971 al 1997. Quando ho scritto molte delle poesie incluse nel volume non avevo interesse a pubblicare; ciò era fuori dal mio orizzonte, non possedevo nulla, non avevo energie, né personali, né economiche, per occuparmi di libri e rapporti con editori: la vita s'inoltrava in tortuosi sentieri fuori dalle righe e dalle regole, che allora m'interessava percorrere, in cui volevo cadere, perdermi, scomparire. Poi le cose sono cambiate e temevo che il libro potesse creare di me un'immagine che non era quella che volevo dare, e, se da un lato non ritenevo onesto edulcorare o falsificare la realtà di certi momenti presenti nell'opera, dall'altro non desideravo neppure renderli di dominio pubblico così com'erano. Semplicemente li ho messi da parte, come una specie di diario segreto di un tempo che a poco a poco è divenuto remoto. Poi le carte si dimenticano, finché un giorno mi sono ricapitate tra le mani e le ho rilette, a distanza di tanti anni, con rispetto, come un pezzo di vita di un altro, come se fossero state scritte da un'altra persona, qualcuno cui, nonostante tutti i suoi errori, sentivo di dovere qualcosa, anche di ciò che sono oggi. Quello è stato il momento in cui è scattato il convincimento che pubblicare quel libro, in un certo senso, fosse un dovere.

3) Mi piace molto la dedica del tuo libro: alle mie cattive compagnie.

“Cattive” per modo di dire. Forse sono il genere di compagnie che i genitori non si augurano per i propri figli, che una certa mentalità diffusa giudicherebbe non buone. Ma per me non era così e ho voluto rivendicarlo nella dedica del libro. Erano i miei compagni di allora, con cui ho fatto un pezzo di strada di vita. Posso ricordare ognuno dei volti di quelle persone, alcuni dei quali ritratti nei versi del libro. Alcuni sono morti, non ci sono più. Ho voluto ricordarli con affetto, dedicando a ognuno di loro questo libro.




Preghiera, Nepal (c) Caterina Davinio 


4) Tu scrivi: – Voglio ricordarlo questo momento, questo sfuggire infinito / e questo è tutto. – Stanno qui le ragioni del tuo scrivere ?

No, non stanno solo in questo. Il verso si riferisce all'effetto della droga, di cui parla quella poesia; la droga è solo tempo presente e la poesia cerca di fissare sulla carta il momento fugace per non perderlo, prima che svanisca, un modo per prolungare qualcosa di tremendamente effimero. Viene usata quella capacità “eternatrice” della poesia per trattenere l'esperienza che il drogato ama di più: l'effetto immediato della droga. Ma la poesia è non solo presente, è anche memoria, anticipazione, immaginazione, visionarietà, anche se tutto viene filtrato nel presente della scrittura. Io non conosco le ragioni del mio scrivere. Potrei dirtene mille e domani le cambierei. Solo dopo aver scritto mi rendo conto che avevo cose fondamentali da dire, oltre quello che pensavo di voler dire, e che dovevano essere dette. È un'esperienza vitale con radici connaturate con ciò che semplicemente il poeta è, al limite del fisiologico. Scrivere è il momento in cui la letteratura, la cultura e tutto ciò che sappiamo si fondono con la dimensione fisica, biologica, per consentire e concretizzare questa estroflessione, emissione di vita sotto forma di linguaggi, che chiamiamo arte, poesia. Questa è l'unica poesia viva, che a me interessa, che non mi lascia indifferente.

5) Nella raccolta ci sono momenti molto intensi di poesia, per esempio in questi versi: – Noi risorgemmo dal nostro inferno come lievi angeli / con il solletico di dio nelle vene giudiziose / graffiati da artigli, aghi come baci – Qui sembri suggerire che per risorgere come angeli sia necessario attraversare l'inferno. È un tema caro alla letteratura.

Oggettivamente non penso che si debba attraversare l'inferno per risorgere, sarebbe “ingenuamente” romantico, o decadente, e autolesionista, e non lo credo. Dipende anche da cosa vuoi chiamare inferno: ci sono alcune vite segnate da esperienze violente, estreme, o che diventano tali per il modo che il soggetto ha di guardare al mondo e alla vita, all'esperienza in tutti i suoi aspetti. Tuttavia, se in una vita non accade nulla, se si rimane solo sulla superficie rassicurante delle cose, se non si rischia niente, non si ha niente da raccontare. In quei versi ho cercato una metafora e un ossimoro che potessero rendere l'intensità di un momento, il senso di salvazione, di resurrezione che accompagna l'ingresso in determinati “paradisi artificiali”, scrollarsi di dosso il male di vivere, la colpa di essere semplicemente uomini, o solo il male della sindrome di astinenza, per dirlo con parole poco poetiche. Si va in una direzione che sembra quella del paradiso e ci si ritrova traditi, un inferno dal quale si può risorgere solo reiterando l'uso della sostanza.




Calcutta (c) Caterina Davinio 


6) Spesso le tue poesie sono legate al viaggio. Che significato ha per te il viaggio ?

Sì, spesso ho amato dedicare poesie a luoghi della Terra dove sono stata, dove ho vissuto in epoche diverse della mia vita, concretizzando tutta la dimensione interiore che caratterizzava quell'incontro con paesi esotici e lontani o talvolta vicini; questa poesia dei luoghi è attraversata anche da geografie interiori e della memoria, o da ambienti immaginati, come il nostro pianeta visto dallo spazio, per esempio.
Ho dedicato al viaggio tre raccolte: Alieni in safari, che sto traducendo in inglese, Cadere all'infinito, cui sto ancora lavorando, che sono due libri di poesia e fotografia; e Aspettando la fine del mondo, che uscirà a ottobre, con testo inglese a fronte, per i tipi della Fermenti Editrice di Roma.
Viaggiare è un momento in cui coltivo tutto il mio senso di estraneità come una preziosa risorsa su cui contare: sentirsi straniero ovunque e di casa in ogni posto.
Viaggio in un atteggiamento di umiltà, per imparare, per guardare negli occhi l'altro, incrociare quei volti, quegli sguardi che non rivedrai mai più e in quel momento devono dirti qualcosa sulle radici profonde dell'essere uomini e donne come te.
Viaggiare è il modo migliore di apprendere, è cultura, è anche anticipazione, immaginazione, aspettativa e studio, che ci fanno preparare al viaggio stesso – un viaggio non “preparato” sa di poco – e infine un viaggio fatto continua a darti qualcosa per tutta la vita, perché diventa bagaglio di riflessione, memoria.
Viaggiare significa essere disposti a farci mettere in discussione da ciò che incontriamo, capire che le nostre certezze non sono incrollabili, che nessuna paura è insuperabile, perché viaggiando ci si espone sempre più o meno a qualcosa di ignoto, che percepiamo come possibile pericolo. Bisogna lasciarsi “attraversare” dall'esperienza di ambienti, atmosfere, facce, cose, persino animali. Ho dedicato delle poesie ad animali esotici e non conosciuti in viaggio. Anche l'animale è un compagno di viaggio, può essere un incontro fortuito di viaggio, bisogna guardarlo negli occhi.
L'Africa, l'India, il Brasile, il Nepal, per citare solo alcuni dei luoghi trattati in molte poesie, hanno lasciato in me un segno infinito e sono un serbatoio inesauribile di suggestioni e immagini, mi hanno aiutato ad andare a fondo in me stessa e a cogliere poi le cose da una prospettiva poetica che sempre rinnova quelle esperienze, le ripropone e le rigenera. Tra viaggio e scrittura scattano delle sinergie.

7) Come sono stati gli anni della tua discesa all'inferno?

Se ti riferisci agli anni del libro dell'oppio devo dirti che a ripensarli nella luce di oggi mi sembrano bellissimi perché sono quelli di una splendente, ancorché disordinata, gioventù, e anche se pericolosi e attraversati da penosi sbandamenti e incertezze, dal continuo cercare di sfuggire alla noia, dal non sapere bene che fare della propria vita, dal sentire la società organizzata e la famiglia come insopportabili, incomprensive, limitanti, fatte di pregiudizi e ostili. Sono stati edonistici, dannati, divertenti e folli. Certo scherzando col fuoco si finisce per bruciarsi, ma fa parte del gioco e io non ho paura. Diciamo che nel passaggio dagli anni Settanta agli anni Ottanta si è perso qualcosa: alcuni sogni, speranze, anche politiche, di cambiare il mondo in direzione dell'uguaglianza e della pace, sono caduti, lasciando il posto a un vuoto e a una scelta agghiacciante: o integrarsi in una società competitiva, vuota e superficiale, in cui non ci si poteva e voleva riconoscere, o autoemarginarsi; in fondo, autoemarginarsi è stata una scelta culturale di una generazione che, prima, a certi ideali forse ci aveva creduto.
Determinate esperienze estreme narrate nel libro non sono l'inferno, perché comunque i protagonisti vivono una vita piena, temeraria, sperimentano tutto, talvolta ferendosi con i loro giocattoli taglienti; più che inferno, è una dimensione patologica quella da cui nascono e in cui sfociano droga, alcolismo, abuso di farmaci, depressione, malattia mentale. La tossicodipendenza è una malattia. È la malattia che può essere un inferno, non l'esperienza in sé.
Il vero inferno sono la noia, la banalità, il non avere nulla da dire, il ritenersi integrati e “normali” e invece condurre con apparente normalità una vita assolutamente insensata.




Sguardo (Calcutta) (c) Caterina Davinio  


8) Scrivi dall'età di quattordici anni. Com'è avvenuta la scoperta della poesia ?

Come tutti, penso, ho scoperto la poesia tra i banchi di scuola. Un giorno, avevo quattordici anni, presi una delle prime, solenni sbronze... e sentii l'impulso di afferrare carta e penna per affidare a un foglio una verità, un'invenzione, una menzogna, una frase capace di dirci qualcosa di profondo sull'essere umano... su ciò che siamo, sul nostro senso. Mi ricordo quel momento: fu un atto cruciale e volitivo. Così è cominciato tutto. Poi iniziai a comprare libri di poesia, al liceo.

9) Ci sono poeti che hanno segnato o segnano il tuo percorso?

Non direi abbiano segnato o segnino il mio percorso, ma letti e riletti più volte e sono tra i preferiti (poeti e narratori): T. S. Eliot, Garcia Lorca, Rimbaud, Baudelaire, Ezra Pound, Friedrich Nietzsche, tutti gli autori della Beat Generation, Charles Bukowski, Robert Musil, Dostoevskij, Tolstoj, Ugo Foscolo e ovviamente ne potrei citare moltissimi altri.

10) Ti occupi di poesia elettronica. È il mezzo che distingue questa nuova ricerca da quelle che l'hanno preceduta? E mi riferisco alla poesia visuale, sonora, alle varie forme di sperimentazione che si sono succedute a partire dagli inizi del 900.

La e-poetry usa nuovi media come il computer, il video, Internet, anche in installazioni e vari ambienti interattivi e forme ibride, tuttavia tali mezzi non sono neutri, ma alterano la struttura dell'opera poetica in profondità. L'elettronica non deve essere solo un supporto, ma entrare nella sintassi. La poesia elettronica è un genere vicino all'arte elettronica e alla net art, anche se in modi diversi elabora elementi di linguaggio verbale in quel contesto. Sviluppa a livello tecnologico l'esperienza e alcuni concetti di base posti dalle avanguardie e della neoavanguardia, della poesia visiva e sonora, performativa, concreta. Nella e-poetry però l'attenzione si sposta dal prodotto finito al processo di elaborazione: è lì che si può cogliere la struttura e che si possono analizzare le differenze, capire come funziona l'opera e in cosa è diversa da un'altra. Diciamo che oltre a mutare la struttura dei vari lavori realizzati e le modalità operative degli artisti, l'e-poetry ci ha costretti anche a modificare l'approccio critico.




Thailand, Koh Phangan Full Moon Party (c) Caterina Davinio


11) Che futuro vedi per l'editoria legata alla poesia?

Da un lato è diffusa la pratica della pubblicazione a pagamento e gli editori non si impegnano nel pubblicizzare i libri che stampano, dall'altra i grandi editori, che non stampano a pagamento, pubblicano pochissimi nomi, non sono quindi rappresentativi della poesia contemporanea nella realtà del paese, inoltre il mercato è obiettivamente molto difficile. Opportunità praticabili si presentano a chi attua una via di mezzo, costruendo un serio progetto culturale e attivandosi nella promozione dei prodotti editoriali che mette in cantiere. Gli operatori seri e onesti riescono prima o poi a farsi conoscere e a creare una proposta che alla lunga è vincente e riesce a emergere e ad affermarsi. Questo vale sia per gli imprenditori del settore, che per i loro autori. Le pubblicazioni elettroniche possono essere un futuro e sono una realtà da tenere d'occhio, perché hanno costi molto contenuti e rapida e maggiore possibilità di circolazione rispetto a un libro, anche se minore durata.




Thailand, Koh Phangan: Dawn at Full Moon Party (c) Caterina Davinio 


12) Com'è la vita quotidiana di Caterina? Oltre alla poesia che interessi coltivi?

Purtroppo molte ore al computer, spesso faccio così tardi che dormo allo studio. I miei interessi: l'arte contemporanea, la fotografia, il video, l'arte e la poesia elettronica, i libri – scrivo anche romanzi e saggistica – viaggiare, la musica rock e underground, i grandi festival goa e psy trance, Mozart, Wagner, la F1, e molte altre cose.




Thailand, Koh Phangan: Dawn at Full Moon Party 2 (c) Caterina Davinio


16 luglio, 2012

Intervista ad Antonella Anedda

INTERVISTA A ANTONELLA ANEDDA




Vera Lúcia de Oliveira



L’intervista che segue è stata realizzata nell’ambito degli incontri di “Poesia a Palazzo dei Priori”, di Perugia, che il Gruppo di Sperimentazione e Ricerca Poetica “Il Merendacolo” ha organizzato dal 1989 al 2009. Più precisamente, è stata fatta il 7 dicembre 2000, dopo un’intensa serata in cui Antonella Anedda ha parlato della sua poesia e ha letto versi della raccolta Notti di pace occidentali (Donzelli Poesia, 1999), allora pubblicata da poco.

Queste e altre interviste da me fatte a vari poeti italiani contemporanei, come Andrea Zanzotto, Mario Luzi, Franco Loi, Valerio Magrelli, Paolo Ruffilli, Gianni D’Elia, Vivian Lamarque, Maurizio Cucchi e Giuseppe Conti sono state pubblicate nella rivista brasiliana Insieme (São Paulo, dal numero 7 al 9, 1998-2001) e sono inedite in Italia. Debbo all’amico Paolo Polvani e al suo interesse per queste interviste il fatto di essere andata a ricercarle, accorgendomi che oggi, più che mai, in un momento in cui l’Italia vive una crisi profonda, le parole dei suoi poeti, ancorché poco ascoltate, illuminano il presente e suggeriscono percorsi di ricomposizione etica e sociale sui quali varrebbe la pena di riflettere.



Quando hai cominciato a scrivere? La scoperta della poesia è il risultato di un processo, o è avvenuta per rivelazione, per illuminazione?



Ho iniziato a scrivere presto, ma ho pubblicato le prime poesie tardi, dopo i trent’anni. La “scoperta della poesia” come tu la chiami è avvenuta attraverso la lettura verso i dodici, tredici anni di una poesia di Aleksandr Blok. Ricordo che quei versi “Ha portato il vento di lontano...” hanno avuto su di me l’effetto di uno spalancamento. C’era una porta tra il paesaggio esterno e quello interiore che a volte la poesia poteva aprire. C’era uno spazio con buone correnti dove mi potevo mettere come un uccello o un pesce. Al liceo ho letto i classici alla luce di questo spalancamento: l’aria che trema di “claritate” di Cavalcanti aveva alle spalle il Cantico del Pentateuco e davanti Blok.



Qual è il tuo percorso, che poeti hai letto, che scrittori ti hanno segnato?



L’elenco è complicato e naturalmente cambia un po’ nel tempo. A caldo: Dante, Foscolo, Puskin, Hopkins, Mandel’štam Cvetaeva, kavafis, Gertrud Kolmar Zbignew Herbert. Ho amato e amo moltissimo Cecov e Dostoevskij (soprattutto da L’Idiota ai Fratelli Karamazov) e Leskov e dei contemporanei mi piacciono Victor Pelevin e Ludmilla Ulickaja. Sulla corrente di Blok ho letto subito dopo Guerra e Pace di Tolstoj e Le anime morte di Gogol. Ero giovane, ma credo che questa lettura mi abbia dato la misura del respiro, l’importanza che ha nella scrittura l’ampiezza. Da allora non temo la solitudine: mi basta aprire un romanzo... Però ci sono molti altri scrittori non solo poeti o romanzieri che penso mi abbiano segnato: Flaubert, Proust e Beckett (per il quale ho un vero e proprio culto) Kierkegaard, Wallace Stevens e Marianne Moore, Paul Klee, gli scritti di Mondrian. Fra i poeti contemporanei è stato importantissimo Philippe Jaccottet.

Oggi sento il bisogno di contenere l’attrazione per i russi, ma anche per i mistici: da Giovanni della Croce a Maria Zambrano. Mi sono riavvicinata alla poesia in lingua inglese, ma non amo la poesia confessionale americana. Da qualche tempo ho riletto con attenzione Elizabeth Bishop (che infatti prende le distanze dalla poesia confessionale). Capita di leggere un poeta, di ammirarlo magari, ma non di “vederlo” davvero. Mi è capitata la stessa cosa con Pascoli.



Hai affermato che la poesia sostituisce talvolta una stretta di mano, che è atto di comunicazione, un ritrovarsi con l’altro. Ma il poeta è solo quando scrive e spesso è solo perché non può stare dove si compiono i riti della volgarizzazione della vita e anche della morte. La solitudine è una condizione e la poesia è il ponte per uscirne?



 “La poesia come una stretta di mano” è un’affermazione di Paul Celan altro poeta per me importante che mancava all’elenco. Questo però non esclude la solitudine che è una condizione non necessariamente negativa, almeno per me. Anzi.



Il “nome è anche raggiungere se stessi”, hai scritto in una poesia. Ma allo stesso tempo conviviamo con l’appiattimento della lingua, con nomi che non significano, che non riportano più né alle cose né agli esseri, talmente sono logori e generici. Può il poeta, da solo, reinaugurare la lingua, rifondare un nuovo rapporto fra il nome e le cose?



Il verso “se nome è anche raggiungere se stessi” mi è stato suggerito da una riflessione di Giacoma Limentani nel suo libro Il Midrash, quando nota che in ebraico Shem (nome) e Sham (luogo, ma nel senso di andare verso un luogo, moto a luogo) hanno la stessa radice. Raggiungere il proprio nome come se fosse un luogo è mettersi in cammino verso se stessi, non solo diventare se stessi, ma smettere di essere ciò che si era accettando di attraversare la propria aridità, il proprio deserto. Non penso però che il poeta debba o possa “rifondare un nuovo rapporto tra il nome e le cose”. Le cose sono qui e le parole possono essere logore, anzi “logoro” è una parola molto bella. L’importante è provare a non essere generici, ma questo è un problema di attenzione, di sforzo. C’è la tentazione a volte di lasciar perdere, di abbandonarsi al suono della propria poesia, alla genericità (che è anche abilità).



In un verso hai scritto: “dai forma al buio”. È quello che resta al poeta di oggi? Perscrutare, modellare, ordinare il buio?



Intendevo proprio un gesto concreto. Plasmare il buio come una materia, come si fa nella scultura. Alla poesia “restano" in realtà molte cose, ma le fa guardando, pensando, ascoltando e scrivendo e riscrivendo.



Ogni poeta ha un concetto di poesia, ne da una diversa definizione. Per te, che cos’è la poesia?



Una cosa terrena, un dono e un lavoro, provando ad andare avanti e invece magari tornando indietro. Insomma un fare molto precario, come la vita.



Scrivi spesso? Lo fai metodicamente, come tanti poeti? O per te la poesia è quel lampo, quell’illuminazione che avvolge e coinvolge tutto l’essere nel momento del suo manifestarsi?



Non, non scrivo spesso, soprattutto a tavolino. Leggo e appunto qualche verso sui libri alla fine delle pagine. A un certo punto, a volte c’è non “un lampo”, ma un fuoco che si accende e poi si spegne. Allora lo seguo e divento metodica. Oppure in certi periodi sono così metodica che accendo con i miei rami quel fuocherello.



Come vede la poesia italiana in questo secolo? Ci puoi tracciare un breve panorama?



Non sono in grado di tracciare un panorama o un mappa: il Novecento italiano è una terra sterminata, mi sembra però che sia fra i coetanei che fra i più giovani ci siano molte brave poetesse e molti bravi poeti. L’elenco sarebbe lungo, ma comprenderebbe orientamenti diversi senza recinti di scuole. M’interessa moltissimo la poesia dialettale, la leggo come leggerei una poesia straniera, ma forse essendo di origini sardo-corse leggo anche gli italiani così.


Giulia Niccolai

Intervista a cura di Paolo Polvani



Alcune domande a Giulia Niccolai. E una sua poesia


Nella  sua casa abitano una poetessa, una monaca buddista, un Grand Ufficiale. Vanno d’accordo ? litigano ? coabitazione felice ?
Ci abita qualcun altro ?

La sua domanda mi mette subito di buon umore e col sorriso sulle labbra. Può considerarla già una risposta? Per spiegarmi meglio le cito un breve testo del Lama tibetano, Kalu Rimpoche:
Viviamo nell’illusione e nell’apparenza delle cose.
C’è una Realtà. Noi siamo quella Realtà.
Quando lo comprendiamo, vediamo che siamo niente.
Ed essendo niente, siamo tutte le cose.
Ecco tutto.
   “Essere niente” non è solo un criptico modo di dire, bensì il frutto di una effettiva, profonda Rinuncia e di un lungo e difficile cammino spirituale nel quale si può anche riuscire a liberarsi della tirannia del tempo.
   Come battuta conclusiva (perché lei potrebbe anche essere troppo giovane per saperlo), sono anche stata fotografa dal ’50 al ’64 (v. Antonella Russo, Storia culturale della fotografia italiana,Einaudi, 2011).


Come si è trasformato nel tempo il suo rapporto con la curiosità ?

Non avrei mai potuto immaginarmelo prima di iniziare un cammino spirituale nel 1985, ma da allora, lentamente, la mia curiosità è del tutto scomparsa. Vivo questo fatto come una meravigliosa liberazione!


Come è iniziata la sua avventura nella scrittura ?


Credo proprio che sia iniziata da Lewis Carroll…I giochi di parola, l’umorismo, le parole che diventano materia, biglie di cristallo colorate…

Scrivere può  essere considerato il primo passo verso il meditare ?

Per me lo è stato sicuramente. Perché scrivendo, ho sempre cercato di capire meglio anche me stessa – direi che scrivo proprio per questa ragione. Cerco la “verità”. Anche se per il Buddismo vi sono due verità: una, relativa, che è come le cose ci appaiono; e una, ultima, che è come le cose effettivamente sono. Dunque, cerco di accorciare il gap tra le due, anche se, per vederle come effettivamente sono, bisogna aver effettivamente  raggiunto la Buddità.


Igea travagliato
trento treviso e trieste
d disgrazia in disgrazia
fino a pomezia
Como è  trieste Venezia


Si ricorda in che circostanza fu scritta questa poesia ?




Lo ricordo perfettamente. Eravamo appena saliti in auto Spatola e io e la frase “Como trieste Venezia” venne contemporaneamente in mente a entrambi, ma la disse prima lui. A lui non ho mai detto che ero certa che ci fosse stata “mandata”, dato che era arrivata anche a me e, per come la pensavamo allora, non poteva essere così!


La rivista Tam Tam riuniva poeti di diversi paesi. Alcuni di questi immagino siano stati molto amati da chi in quegli anni si avvicinava alla poesia. Penso soprattutto a Bisinger e Beltrametti.
Che ricordo ha di quel periodo e di quegli autori ?


Il ricordo di quegli anni Settanta straordinari l’ho scritto in un capitolo, Gli anni di Mulino, diEsoterico biliardo, un mio libro di memorie edito da Archinto nel 2000. Avevamo contatti con poeti di tutto il mondo che venivano a trovarci nell’Appennino emiliano, a Mulino di Bazzano, in una casa della famiglia del poeta Corrado Costa,  sebbene non avessimo nemmeno il telefono. Come con il ’68, si pensava che fosse l’inizio di qualcosa di meraviglioso, e invece fu la fine, il canto del cigno di qualcos’altro, un’altra epoca. In gennaio, parlerò invece di Beltrametti a Gorgonzola..
Due altri libri che parlano proprio di Mulino di Bazzano e di quegli anni sono: Eugenio Gazzola,“Al miglior mugniaio” Adriano Spatola e i poeti del Mulino di Bazzano, Diabasis, Reggio Emilia, 2008; e La repubblica dei poeti – Gli anni del Mulino di Bazzano, a cura di Daniela Rossi, collaborazione di Enzo  Minarelli, Campanotto Ed. Udine, 2010.



Ha progetti in corso ?



Ho appena terminato un saggio su Corrado Costa, scritto per la Biblioteca Panizzi di Reggio Emilia, che aveva invitato Aldo Tagliaferri, Giuseppe Caliceti e me a parlare di lui il 2 dicembre per il ventesimo anniversario della sua morte. In gennaio, parlerò invece di Beltrametti a Gorgonzola, anche se il vero argomento dell’incontro è il libro del direttore della biblioteca di quella cittadina, Franco Galato, nelle cui poesie parla spesso di Beltrametti. E insomma, anche per queste chiacchierate ci si deve preparare.
Tra un paio di mesi dovrebbe uscire anche una antologia della mia poesia, con un saggio di Milli Graffi, per la collana fuoriformato di Le Lettere, Firenze, a cura di Andrea Cortellessa.



Anche lei pensa che non viviamo davvero ciò che non riusciamo a raccontare ?


Non lo penso con tale assolutismo, ma certo scrivere aiuta ad avere una maggiore consapevolezza nei confronti di ciò che si sta raccontando.  A meno che non si bari o non si inventi di sana pianta.

P.S. A proposito delle domande solo accennate: mi sveglio verso le 7, faccio colazione, medito, faccio la spesa o scrivo e leggo, preparo il pranzo, pennichella dei vecchietti, medito di nuovo, vedo amici o gente che mi vogliono parlare per questo o per quello, il lunedì e il mercoledì vado al Centro buddista per insegnamenti dalle 20 alle 22, torno a casa, ceno, TV, leggo o medito, letto alle
23. Due fine-settimana al mese: insegnamenti al Centro Buddista.

La mia casa è di 2 stanze più bagno e cucina, in tutto, 67 metri quadri. Poco spazio, troppi libri, mancano cassetti e armadi ma va bene anche così:




***

Corpi unici compatti e ronzanti


Corpi unici compatti e ronzanti
incollati ai soffitti dei pronai,
tra le colonne, o agli spioventi dei tetti,
grappoli a semisfera di api, larghi e lunghi
più di un metro, sono sempre visibili
all’esterno dei templi buddisti. Stanno
forse a simboleggiare, a confermare
il “miele”, la purezza e la dolcezza
delle menti dei grandi Lama
che pregano e meditano all’interno.